“Tra morti viventi e vivi morenti … siamo tutti uguali.”
La chiusura definitiva, non voluta, e duplice pietra tombale del cinema italiano di genere horror nel secolo scorso, spetta di diritto a due pellicole, uscite rispettivamente nel 1993 e nel 1994, divenute nel tempo due cult per diversi motivi. DARK WATERS di Mariano Baino e ovviamente DELLAMORTE DELLAMORE di Michele Soavi. Quest’ultimo film in particolare, all’epoca un flop al botteghino ( e noto all’estero con il titolo Cemetery Man) , è riuscito ad essere rivalutato nel tempo e dare vita ben presto ad una lunga serie di appassionati (anche eccellenti, come Martin Scorsese), valorizzando i pregi (tanti) e seppellendo i difetti (diversi).
Francesco Dellamorte è becchino e guardiano del cimitero di Buffalora, un piccolo paese lombardo, assieme al suo fedele amico Gnaghi, dove i morti non restano tali. Sette giorni dopo la sepoltura i cadaveri escono dalle loro bare a caccia di carne e viventi. E’ compito di Francesco eliminare questi “ritornanti” prima che scappino nella piccola comunità locale …
Chi ha masticato Zio Tibia, Dylan Dog e VHS horror nei videonoleggi verso la fine degli anni ’80 e inizi ’90, conosce sicuramente le origini di questo film. La pellicola è tratta dal romanzo omonimo di Tiziano Sclavi, creatore del fumetto succitato, scritto nel 1983 ma pubblicato solo successivamente. Dylan Dog, personaggio ispirato al protagonista del romanzo, doveva avere infatti come assistente nelle sue indagini dell’incubo proprio Gnaghi. Per fortuna (con tutto il bene che si può volere a questo personaggio bizzarro) fu proprio l’editore, Sergio Bonelli, a insistere per avere come spalla dell’indagatore dell’incubo un personaggio ironico e dalla parlantina facile, chiamato e ispirato al celebre Groucho dei fratelli Marx. Per quanto concerne le fattezze di Dylan Dog, Tiziano Sclavi mandò il disegnatore, delle prime copertine, Claudio Villa, al cinema, a vedere Another Country, con il compito di copiare, rigorosamente al buio, le fattezze dell’attore protagonista, tale Rupert Everett. Nel 1994, con l’ovvia scelta dell’attore britannico di interpretare il ruolo di Francesco Dellamorte, il cerchio si chiudeva definitivamente.
L’opera è una delle rare pellicole horror italiane in grado di unire commedia ai limiti del demenziale (la nidiata zombie di boy scout è oltre il trash), romanticismo macabro, visioni metafisiche e horror malinconico, reso credibile quest’ultimo dall’interpretazione robusta e fragile contemporaneamente di un Rupert Everett in stato di grazia, in grado di canalizzare al meglio l’idea principale degli autori (Slavi e Soavi) del protagonista e della storia che lo avvolge. Mostrare al meglio due mondi opposti, lontani ma allo stesso mai così imprescindibili tra loro. Un cimitero, con le sue regole e ‘fantasie’ estreme (vere o presunte solo poco importa), e quello dei vivi. Quest’ultimo, rozzo, volgare e basato su potere, invidia e avidità che trova nell’anomalo vivente Francesco quasi un alieno da deridere e persino trattato da invisibile, anche al cospetto di eventi surreali e difficilmente catalogabili. Se gli effetti speciali (opera di Sergio Stivaletti) possono dividere, in quanto gli zombi, un mix tra vegetali e mummie carnevalesche, suscitano nervose risate, il film gode di ottime scenografie, una sontuosa fotografia mozzafiato ed una regia che si esalta nei momenti più sospesi e deliranti, dove i giochi di cromature horror e gotica avvolgono con piacere lo spirito più soprannaturale e surreale del film, ispirato, per conferma del regista, anche alle opere di Arnold Böcklin. Naturalmente non è tutto oro quel che luccica, o meglio c’è ma si nasconde nelle oscurità del cimitero di Buffalora. Se Anna Falchi (senza veli) rimane oggi come allora un belvedere, la recitazione sua e di altri interpreti (Stefano Masciarelli su tutti) risultano ai limiti dell’imbarazzante e fin troppo trash. Al contrario quella di François Hadji-Lazaro nei panni di Gnaghi, incapace di esprimersi in parole, racchiude anch’essa come quella di Everett lo spirito ironico e malinconico che pervade la pellicola, soprattutto nel bellissimo finale, questo degno dei grandi horror italiani del secolo scorso. DELLAMORTE DELLAMORE, in conclusione, è un film destinato, come il vino pregiato e raro, ad acquistare misteriosamente, ad ogni nuova visione, valore e apprezzamento con il passare del tempo (oggi sono 30 anni, giustamente celebrati con una nuova visione cinematografica), aumentando il fascino dello stesso in maniera esponenziale! VALUTAZIONE 4/5
H.E.
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