Ho aspettato fiduciosa, guardando trailer e cercando notizie, questa pellicola, secondo lungometraggio del regista texano, nonostante il primo sia alquanto introvabile (almeno per la sottoscritta!). Per fortuna tutta la mia attesa non è collassata in una spirale di delusione ma è stata ripagata da uno dei lavori più strani e ambigui che abbia mai visto.
Trama: Ariel è un ex soldato che vive nei boschi praticamente come un eremita, mangiando ciò che caccia o trova e dormendo assieme a una bambola gonfiabile. Le sue giornate consistono nel girovagare ed esplorare l’angolo di mondo in cui si è rifugiato a causa di un passato criminale e burrascoso. Un giorno durante una delle sue passeggiate finisce in un edificio abbandonato in cui vive una creatura che cerca costantemente sangue e altri fluidi umani per nutrire il suo giardino di mandragore.
La mandragora è una pianta molto particolare che secondo la leggenda nasceva dai liquidi umorali prodotti dagli impiccati in punto di morte ed è sempre stata uno degli ingredienti fondamentali delle pozioni magiche per guarire da alcune malattie e addirittura per donare l’immortalità, nonostante sia dichiaratamente velenosa; sempre secondo la leggenda, quando la sua radice dalla strana forma umanoide viene recisa produce un suono, simile al pianto di un bambino, capace di uccidere. Non a caso la prima cosa che udiamo nel film è appunto il pianto di neonati (che man mano si trasformano in altri rumori fra cui il grugnito di un maiale, animale simbolo al tempo stesso della lussuria e della fertilità). Diviso in tre capitoli (un prologo, uno svolgimento e un epilogo), il lavoro di Corona è senza dubbio ipnotico, inquietante e spiazzante. Una serie di immagini a metà strada fra l’onirico e il fantasy che, nonostante sembrano sconnesse, non puoi far a meno di guardare. Il prologo (“I-the figure”) è stuzzicante e curioso: una ragazza nuda incatenata, tenuta prigioniera e torturata da un “uomo” con una maschera da bondage che ha bisogno della sua parte più nascosta. Lo svolgimento (“II-Mandragora”) ci fa vedere il nostro soldato, una sorta di sopravvissuto con l’aria da vendicatore, che passeggia per questo splendido bosco ed esplora la natura incontaminata, cercando un luogo in cui gridare e sfogarsi, fino ad incappare in questo palazzo lurido e fatiscente pieno di scritte e riferimenti demoniaci, maiali (presenza costante) e simboli esoterici. Lì in quel luogo fuori dal tempo il suo passato ritorna, implacabile e intollerabile, come un coltello piantato in un fianco e poi girato su sé stesso, e lo perseguita mentre lui è privo di sensi. Nel suo stato di incoscienza intervallato da momenti di lucidità Ariel è disperato, forse pentito, sicuramente rabbioso mentre affronta i suoi demoni. Fino all’epilogo (“III-Dis”) in cui deve fare i conti con un altro demone. Ma che cos’è Dis? Questa parola latina significa tante cose: prima di tutto vuol dire “ricco”; se usato come suffisso denomina ambiguità, tratto distintivo di tutta la pellicola, a partire dalla doppia natura vegetale-animale della pianta; ma soprattutto Dis è sinonimo di Plutone, divinità romana degli inferi, e di Dite, la città infernale descritta da Dante nella sua “Divina Commedia”. Tanti significati, tutti possibili e tutti plausibili per una pellicola da vivere e da provare sulla propria pelle. La percezione di pace che proverete all’inizio, nonostante il montaggio talvolta scattoso e i repentini cambi di inquadratura, verrà sostituita da un senso di disorientamento mentre cercate di seguire con gli occhi i movimenti a 360° di Corona, che ci farà girare la testa cercando di confonderci e dandoci la prospettiva dello stesso Ariel. Infine sarà la sensazione di marcio e di disturbante (sarei tentata di dire che “dis” significa proprio quello) che vi annebbierà il cervello e che vi farà ripensare a cosa diavolo avete appena visto, cercando un senso, una connessione, un filo logico che immancabilmente vi sfuggirà di mano e si intreccerà con altro, con simboli magari, deduzioni, teorie e ipotesi. Ma personalmente ho visto raramente qualcosa di così sconcertante senza bisogno di molte parole (fatta eccezione per “Flowers” di Phil Stevens) vista l’esigua quantità di dialoghi che poco spiegano e molto intrigano. Il sangue quasi non c’è, la violenza fisica vera e propria è irrilevante…ma la parte psicologica lascia veramente disorientati! Non mi resta che augurarvi buona visione! VALUTAZIONE 8,5/10
Review by Francesca Tiger Bimbi